Greenwashing: l’ambientalismo di facciata

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Nell’era moderna in cui la consapevolezza ambientale sta guadagnando terreno, sempre più aziende stanno cercando di dimostrare il loro impegno verso la sostenibilità. Tuttavia, dietro alle campagne pubblicitarie e alle etichette “verdi” si nasconde spesso una realtà ben diversa, nota come greenwashing.

Che cos’è il greenwashing

Il greenwashing è una particolare pratica, che vede l’azienda adottare una strategia di comunicazione volta a attribuirsi un’immagine virtuosa, sotto il profilo dell’impatto ambientale, anche se a tal quadro descrittivo non corrispondono azioni di pari valore. 

In altre parole, il greenwashing rappresenta una pratica contraria al concetto di green marketing. È una forma di appropriazione indebita di virtù e qualità ecosensibili per conquistarsi il favore dei consumatori o per ricostruirsi una buona reputazione.

In realtà, l’ambientalismo di facciata inganna sia i consumatori, in quanto li induce a scegliere prodotti che non garantiscono la promessa data, che le aziende in quanto rischiano di perdere il green premium price e le correlate certificazioni ambientali (EU Ecolabel), oltre a deteriorare la loro brand reputation.

Un po’ di storia sul greenwashing

Non si tratta, però, di un fenomeno nuovo: il greenwashing è stato menzionato per la prima volta dall’ambientalista americano Jay Westerveld nel 1986, che lo adoperò per accusare alcune catene alberghiere di comunicazioni ingannevoli. All’epoca, gli albergatori inducevano i loro clienti a limitare il consumo e l’uso di asciugamani per ridurre l’inquinamento ambientale e controllare gli sprechi idrici, nascondendo le reali motivazioni economiche legate al taglio dei costi operativi.

Questa situazione rappresenta solo il primo capitolo di una lunga storia di casi simili. Uno degli esempi più noti e scioccanti riguarda il settore automobilistico, con lo scandalo noto come “dieselgate”, neologismo usato per indicare lo scandalo delle emissioni manipolate dei motori a gasolio. 

Diselgate

Nei primi anni 2000, il motore diesel veniva promosso come una soluzione a basso impatto ambientale, capace di ridurre significativamente l’inquinamento atmosferico in confronto ai motori a benzina equivalenti. Il che ha portato l’Europa a a incentivare l’acquisto di veicoli diesel attraverso una riduzione delle accise sul gasolio, con un differenziale fiscale in Italia del 63% sul diesel rispetto al 66% sulla benzina (dati: Mise, 2017).

Eppure, il 18 settembre 2015, l’Environmental Protection Agency (EPA) ha presentato un’accusa formale contro la Volkswagen, sostenendo che l’azienda avesse consapevolmente e intenzionalmente manipolato i dati sulle emissioni di alcuni veicoli diesel mediante l’uso di un software progettato per eludere i test di laboratorio. Durante queste prove, il software consentiva all’auto di riconoscere il ciclo di omologazione e di attivare una calibrazione per ridurre le emissioni di ossidi di azoto (NOx). Tuttavia, durante la guida su strada, il software veniva disattivato, producendo emissioni che superavano di 40 volte i limiti consentiti.  In questo modo, il suo impatto sull’ambiente e sulla salute risultava molto più grave di quanto riportato dai test di omologazione sui veicoli.

Le conseguenze dello scandalo del 2015 hanno profondamente scosso la Volkswagen e l’intera industria automobilistica, portando all’attenzione questioni relative all’ambiguità dei test di certificazione. La società con sede a Wolfsburg ha dovuto inoltre affrontare non solo sfide finanziarie, organizzative e legali, ma anche gravi danni all’immagine aziendale, che hanno determinato un cambiamento nella sua leadership.

Il “dieselgate” rappresenta un esempio lampante di greenwashing: far credere ai consumatori che una determinata azienda sia impegnata a proteggere l’ambiente, più di quanto non lo sia in realtà.

La sostenibilità non deve essere solo una promessa, ma deve diventare una concreta realtà

L’ambientalismo di facciata sembra purtroppo perdurare in svariati settori, spaziando dall’arredamento alla ristorazione, fino all’industria della moda. Il Rapporto di Greenpeace del 2023, intitolato “Greenwash Danger Zone”, evidenzia come molti marchi di moda ancora oggi sfruttino dichiarazioni fuorvianti sull’ecosostenibilità per celare l’insostenibilità della produzione di abbigliamento a basso costo.

Nel dettaglio, Greenpeace ha condotto un’indagine approfondita sulle iniziative di marketing green di 29 aziende, tra cui nomi di spicco come H&M, Zara, Benetton, Mango, e altre rinomate marche internazionali come Decathlon e Calzedonia. Nel corso dell’indagine condotta, sono emersi una serie di problemi condivisi tra le aziende prese in esame. Tra questi, spiccano la mancanza di una verifica esterna sulla sostenibilità dei processi di produzione, l’assenza di una tracciabilità accurata delle catene di produzione e la promozione di una narrazione distorta riguardo al concetto di circolar economy.

Greenwashing is a symptom of the bigger disease – the destructive system of the linear fast fashion business model which can never be sustainable. If fashion brands honestly want to address their environmental and social impacts they need to work towards creating slow, circular fashion that respects environmental boundaries and the rights and well-being of people. Global fashion brands need to completely change their linear business models and become service providers instead of only producers. This also means innovation in alternative ways to engage with customers on fashion, beyond the model of buying new”. 
Report Greenpeace del 2023, Greenwash Danger Zone

Consigli per le aziende che vogliono essere 100% green

Per ridurre il fenomeno del greenwashing nel nostro “Sistema Paese” devono esserci sistemi chiari e obbligatori di standardizzazione. Inoltre, è fondamentale implementare meccanismi volti a incrementare la consapevolezza dei consumatori riguardo alle loro scelte d’acquisto. Parallelamente, è necessario stabilire autorità di sorveglianza a livello nazionale e internazionale con il compito di vigilare e sanzionare questa pratica ingannevole. A titolo esplicativo, in Italia, l’ambientalismo di facciata viene considerato pubblicità ingannevole ed è controllato dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato.

In aggiunta a quanto sopra, è essenziale che le aziende adottino una comunicazione trasparente in merito agli aspetti legati alla sostenibilità dei loro prodotti.

Ecco 5 consigli rivolti alle imprese che vogliono essere 100% green:

  • chiarezza sull’origine dei materiali: nell’affermare la sostenibilità del prodotto, è essenziale dichiarare la provenienza dei materiali di produzione, evitando omissioni.
  • fornire prove concrete: sostieni le tue affermazioni sulla sostenibilità del prodotto con dati, articoli, approfondimenti e certificazioni ambientali che garantiscano la veridicità dei messaggi destinati ai consumatori.
  • comunicazione precisa: evita l’utilizzo di frasi generiche che potrebbero essere ambigue o fuorvianti per i consumatori, assicurandoti che la tua comunicazione sia chiara e accurata.
  • rilevanza per i consumatori: concentrati su affermazioni ambientali che siano veramente utili e rilevanti per il pubblico, evitando di sovraccaricare la comunicazione con informazioni superflue.
  • coerenza nella comunicazione: implementa una strategia di comunicazione integrata della sostenibilità del prodotto, garantendo coerenza tra vari livelli di comunicazione e tra campagne pubblicitarie, evitando dichiarazioni troppo generiche o fuorvianti.

Se desideri sfruttare i nostri servizi per comunicare le pratiche sostenibili della tua impresa o startup, contattaci.

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